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S come sparire

9 ottobre 2023

Scritto a novembre 2022

Non avevo mai visto qualcuno sparire.
Due dei miei nonni erano già molto anziani e allettati quando sono nato, un altro è morto senza fare in tempo ad invecchiare, l’ultima che resta è nonna Ines. Quando sono nato aveva 56 anni ed ora ne ha ben 90.
Nell’ultimo anno il suo tracollo è stato rapido e totalizzante, accelerato da una frattura al femore e dallo stress dovuto all’andarivieni tra casa e ospedale.
Diciamo che il nostro rapporto è stato sempre un po’ acceso.
Quando morì mio nonno e lei rimase vedova tornò a vivere con noi, e con lei molti dei suoi mobili (per attutire il cambiamento) presero il posto dei nostri… così quel divano giallo coi braccioli stondati nei quali mi ero divertito a fare le capriole per tanti anni venne sostituito da una poltrona beige in legno e pelle così fredda e dura per me.
Questa “invasione” di spazi che fino ad allora non avevo mai dovuto condividere destabilizzò molto le mia quotidianità.
-Emanuele non suonare il pianoforte che mi da noia
-Emanuele lascia il telefono che mi chiamano le mie amiche
-Emanuele non cucinare e non lavare i piatti! sei un uomo, quello devo farlo io
-Emanuele fai questo e quello

A volte volevo urlare e dire “qui ha sempre funzionato così ed è sempre andato tutto bene”. a volte mi sono arrabbiato, e a volte ho cercato di intavolare dei discorsi per cercare di attenuare il forte gap generazionale che inevitabilmente metteva distanze tra di noi; nonostante fossero troppo radicati in me ed in lei certi valori così diversi a distanza di anni posso dire che era bello provare a trovare una linea comunicativa che ci permettesse di avvicinarsi… ed in realtà questo in parte è successo.
fino a pochi anni prima era impensabile dire anche soltanto “testa di cavolo” o ”vaffan… tasca” in sua presenza, nel corso degli anni ha fatto anche lei qualche passo per avvicinarsi a un linguaggio meno austero, lasciandosi andare anche a qualche parolaccia, di cui spesso non capiva il significato.
Una volta dopo essersi scordata la luce accesa in cucina borbottò “oh, come so stronza!” (???)
a volte era bello sedersi vicino al camino a sentire i suoi racconti dei tempi difficili, la guerra, i bombardamenti, i campi di concentramento, la ripresa negli anni ‘50 e ‘60…
la sua indipendenza negli ultimi anni è venuta sempre meno, fino ad oggi che sdraiata sul letto ortopedico le do da mangiare un frullato di pollo semolino e verdure, ricordandole di mangiare piano mentre passa da un ricordo a una frase totalmente senza senso.
Il più delle volte mi tiene la mano e mi dice che sono un bravo ragazzo, ogni tanto spara un -non conti niente per me- e anche se è la sua voce a dirmelo, so che non è lei a parlare.
nulla accade per caso, e se da una parte per la prima volta vedo un essere umano diventare grande (mia nipote), dall’altro vedo un essere umano ritornare piccolo. E in qualche modo questi due percorsi, che alla fine sono sempre uno che vale per chiunque, fanno luce su quanto sia importante vivere bene questa breve vita che abbiamo, così bella e così brutta, tanto gentile quanto severa, commettendo errori ed insuccessi ma gioendo dei traguardi raggiunti.
quest’ultimo involontario insegnamento è, forse, il più prezioso poiché non c’è parola che lo spieghi, lo si assorbe da dita vizze e rugose che tengono le tue ancora lisce e forti, e dagli occhi velati con la cataratta che ti osservano come fosse un bimbo in culla.


Godiamocela finché regge

13 Gennaio 2023

Quando sono entrato in quella stanza ieri mattina c’era solo un letto vuoto, nessuna coperta nessun lenzuolo nessun cuscino.
Sugli scaffali non c’erano più medicine, pannoloni, sulla sedia nessun abito o telo piegato.
Avrei dovuto smontare il letto ortopedico per toglierlo di li, e sarebbe tutto tornato come prima che ci finisse mia nonna in quella stanza.
Ma c’era una cosa ancora sua, oltre al letto li: il suo odore.
L’odore che lascia una persona quando dorme tutta la notte in una stanza, l’odore che hanno i nostri vestiti alla fine di una giornata, l’odore che hanno i nostri capelli e che sente bene chi ci abbraccia.
Mi sono messo a smontare il letto, è stato rapido e ci sono voluti poco meno di 20 minuti.
L’ho riposto e tolto l’ultima bombola di ossigeno che stazionava nel corridoio.

In 20 minuti il mio olfatto si è abituato e non sentivo più quell’odore.

Così sono uscito dalla stanza e mi sono fatto un caffè in cucina, ho atteso qualche minuto e sono tornato in quella stanza.
Prima di aprire la finestra e dare un cambio di aria ho respirato a pieni polmoni, sulla libreria ci sono ancora alcune cose che lasciai li quando dormivo in quella che era stata la mia cameretta prima di andarmene di casa. Qualche foto sul cassettone e alcuni miei quadri alle pareti.
Ho aspettato di riabituarmi a quell’odore per tenermelo bene in mente, per registrarlo. Perché basterà dare 2-3 volte lo straccio sul pavimento e già non ci sarà più.
Resterà solo su qualche suo vecchio vestito.
E nella mia memoria.
Sono finiti i respiri affannosi, le grida e le imprecazioni quando l’infermiera le stirava i muscoli ormai contratti, ma anche i sorrisi quando le davo da mangiare, il tremolio delle mani che si avvicinavano per prendere le mie.
Per certe cose una mancanza, per altre un sollievo.

Quella finestra adesso è aperta ed entrerà aria nuova, lo straccio in terra passerà un prodotto a base di lavanda o fiori primaverili, è giusto così.

Però finché c’è ancora un po’ di aria vecchia che me la ricorda, la respiro volentieri. Solo per un po’.

A Dio nonna Ines

Attese

3 settembre 2022

L’importante non è quanto aspetti ma chi aspetti, si dice. Ed è vero.

Quando ti sei alzato per andare a lavarti le mani, hai lasciato la tua sacca con le ancore ed il cellulare sul tavolo.

Ho osservato i tuoi polpacci sodi muoversi mentre ti allontanavi, dopodiché lo sguardo si è posato su quella sacca. E io ho provato invidia.

Si, ho invidiato una sacca di plastica.

Ho pensato ai suoi lacci che ti cingono le spalle ogni giorno, un po’ come vorrei fare io. Ho pensato al suo contenuto che sbatte leggermente sulla tua schiena al ritmo della camminata, a volte liscia a volte sudata.

Ho invidiato una sacca.

L’attesa comunque è languida e malinconica, a prescindere da chi aspetti.

Emanuele

M come Mostro

1 settembre 2022

Nell’estate 2016 tornavo single dopo una convivenza con e una relazione tossica (nella quale anch’io portavo la mia dose di tossicità).
Non avendo organizzato nulla a causa della sensazione di instabilità decisi all’ultimo momento che avrei visitato la Puglia, visto che non c’ero mai stato.
Nel mio vagare alla scoperta di nuovi posti scoprii che un ragazzo col quale ero virtualmente in contatto abitava proprio dove ero in quel momento.
Roberto non viveva da solo quindi non poteva ospitarmi, quindi dopo cena mi diede appuntamento al suo negozio di tappezzerie, ci mettemmo a parlare sugli sgabelli e dopo qualche ora scattò la scintilla e finimmo nel magazzino su una brandina a fare l’amore.
Dopo restammo a parlare e fantasticare di cose che, sapevamo entrambi, non avremmo mai fatto insieme. Ad un tratto mi mise l’orecchio sul petto all’altezza del cuore, e con le dita mi batteva sulla spalla scandendo i ritmi del mio battito. Mi guardò e mi chiese -in questi giorni andiamo a mangiare una pizza?-
Roberto aveva degli occhi dolcissimi, ed un viso che anche in contesti erotici e spinti non perdeva mai la sua tenerezza.
Nelle ore trascorse a parlarci avevo intuito un carattere affabile buono ed estremamente rispettoso, che mi ricordava ciò che fin da piccolo sognavo di trovare in un uomo.
Ma Roberto abitava a 800km da me, ed io venivo fuori da una relazione cominciata esattamente alla stessa distanza. Inoltre ero ancora carico di rabbia e dolore per il mio ex, e intuendo un possibile coinvolgimento emotivo risposi -cavolo, domani me ne vado…. dai magari l’anno prossimo-

L’anno successivo tornai, e trovai alcuni giorni da dedicare a Roberto ma sempre all’interno del suo negozio, un po’ come se volessi confinare quel rapporto intorno a quel perimetro senza permettergli di uscire.
E così accade l’anno successivo e quello dopo ancora. Ogni anno dicevo -l’anno prossimo ti offro una pizza-
Dando per scontato che lui sarebbe sempre stato pronto a mangiarla con me.
A volte dopo essere stati insieme ci addormentavamo, io mi svegliavo a tarda notte e lo osservavo, illuminati da una lampada vintage a luce calda appoggiata sul tavolino, vicino a fogli pieni di misure e cataloghi di tessuti. E così a metà nottata lo svegliavo per dirgli che sarei dovuto scappare perché il mattino dopo sarei dovuto alzarmi presto… ma non era vero, volevo solo fuggire da tutto ciò che poteva coinvolgermi e Roberto era una minaccia. Una dolce minaccia. Lui avrebbe voluto che restassi ma non insisteva mai, rispettava sempre il mio spazio e credeva sempre a quel che gli dicevo.
L’ultimo anno che ci si vide, dopo averlo fatto, mi confidò una sua paura: da qualche settimana aveva dei fastidì alla lingua e doveva fare dei controlli.
-stai tranquillo Roby vedrai che non è nulla non preoccuparti- gli dissi.
Sono passati due anni da allora, mi sono fidanzato, c’è stato il covid e le nostre vite sono state stravolte dalla pandemia, ed io l’ho accusata fortemente. A gennaio 2022 un mio contatto pubblica un post di cordoglio, al termine del quale c’era la foto di Roberto.
In quel momento sono caduto da un precipizio sul quale non sapevo di essere in bilico.
Roberto fece quei controlli e venne fuori che aveva un cancro, contro il quale ha lottato per due anni come un guerriero, subendo l’asportazione della lingua (poi ricostruita nel miglior modo possibile con parti di altri muscoli) e varie terapie di circostanza lottando sempre con il sorriso e la speranza, grato alla vita che lo aveva messo alla prova. Alla fine però aveva vinto il cancro.

Ma io tutto questo non l’ho mai saputo.
In quei due anni io, che parlo sempre di quanto sia importante essere gentili con tutti e di voler bene a tutti, non ho avuto un solo pensiero per Roberto. Neanche uno.
Era come se mi fossi dimenticato di lui.
La mia vita è stata assorbita da altre dinamiche ma non ho mai trovato un momento per pensare di scrivergli -come stai?-

Mi sono sentito un mostro.

Roberto è morto senza che gli dessi mai la possibilità di conoscermi al di fuori di quelle quattro mura. non ha mai preteso niente da me, accettando tutto ciò che gli ho dato per quanto poco fosse. Ogni anno mi alzava la saracinesca del suo negozio con il sorriso e la speranza di potermi conoscere al di fuori di quella bolla di sapone.
Roberto è morto senza che gli potessi dire che gli avevo voluto bene, forse avrei potuto volergliene di più se mi fossi lasciato andare alle spalle tutti i miei mostri e le mie paure.
È morto pensando di essere stato per me uno dei tanti, ma ancora oggi ricordo l’odore della sua pelle, il suono del suo sorriso, la maglietta che indossava mentre lo stavamo facendo l’ultima volta e che non voleva sollevare perché si vergognava di non avere molti peli.
Sono andato dietro a tanti uomini a cui non importava niente di me, e non ho dato una chance a questo splendido ragazzo se non altro di sorridermi davanti a una pizza.
Come un ragazzino impazzito ho fatto un giro di telefonate ai miei scopamici storici dicendo loro che gli volevo bene.
Perché Roberto mi ha insegnato questo: bisogna dire le cose importanti quando hai ancora la possibilità di farlo.

E ora a distanza di 9 mesi eccomi qui, a 800km da casa in un cimitero Pugliese come mi ero promesso, a passare la mia mano sul freddo marmo che contiene i suoi resti.
-eccoci qui, Roberto. È la prima volta che ci vediamo fuori da quel retrobottega. Quanti momenti su quella brandina scricchiolante. Sorrisi, speranze, sogni, piacere, tristezze… ho tanti ricordi di te.
Non sono riuscito a dirtelo ma te lo dico ora: ti voglio bene.
E ti ho portato questi fiori di campo. Un mazzetto da 15€, il prezzo di quella pizza che non ti ho mai offerto. So che non avresti voluto che spendessi di più.
Sei così bello in questa foto, è così che ti ricordo. Con quella maglietta della salute bianca e le braccia buttate all’indietro mentre mi guardi con quegli occhi pieni di affetto, pieni di luce, di terra, pieni di sorrisi e di tempo.
Magari un giorno torneremo li in quel retrobottega illuminato da una abat-jour in tessuto, e io ti guarderò ancora mentre dormi sereno sognando luoghi e tempi che, tu non sapevi, non avresti mai vissuto

Emanuele

I come inclusione

2 novembre 2021

Questa volta mi ritrovo a parlare di uno dei tasti più dolenti del mio percorso, almeno fino ad adesso. Cercherò di farlo con quanta più sincerità possibile, nonostante sia ancora difficile non tanto parlarne quanto accettarlo. Sarà molto lungo vi avverto, ma non voglio risparmiare nessun dettaglio, soprattutto perché lo sto scrivendo in primis per me stesso, per ricordarmi dove sono stato capace di arrivare, e poi per chi in caso si trovasse in una situazione simile, volesse sapere a cosa va incontro.

Nel 1999 ero in prima media, e per la prima volta sentivo parlare di disturbi alimentari.
In quegli anni si cominciava a capire che su certe tematiche bisognava sensibilizzare i ragazzi e c’era un timido approccio a ciò che poi sarebbe anni dopo sfociato nella body positive.
Ci spiegarono che che la condizione di sottopeso estremo si chiama anoressia, e che esisteva un disturbo chiamato bulimia che portava chi ne soffriva a desiderare un controllo morboso del proprio peso fino al punto di espellere con vomito autoindotto o lassativi il cibo appena ingerito.
Ci venivano presentate immagini di fotomodelle o modelle da passerella che sfoggiavano una spiccata magrezza e venivamo educati a non ammirare questo tipo di fisicità o comunque a non ricercarlo a tutti i costi.
Una cosa mi colpì: in tutti gli esempi che ci facevano erano presenti solo ed esclusivamente soggetti femminili. Non solo, l’insegnante sembrava rivolgersi unicamente alle ragazze, parlando della condizione di amenorrea (interruzione del ciclo mestruale) data dall’eccessiva magrezza, dello svuotamento dei seni, della perdita dei capelli (che a parer loro era un problema esclusivamente femminile visto che in un uomo è “normale”).
In quel periodo della mia vita ero soggetto di bullismo, legato a diversi fattori, alla mia sensibilità, alla mia altezza, al mio aspetto e anche alla mia fisicità.
In età prepuberale ero sempre stato magro, ma con lo sviluppo assunsi delle forme più “rotonde”, senza alcun eccesso ma sicuramente non magro.
La mia stazza, il mio ingombro mi rendevano una persona che si faceva notare, e questo mi creava molti problemi, rendendomi un facile bersaglio.
Durante questa lezione ci spiegarono che mettendosi un dito in gola si stimolerebbe il riflesso di peristalsi inversa e si spinge il cibo che si è appena mangiato a risalire dell’esofago e quindi a vomitarlo.
Nella mia testa pensai che vista la declinazione prettamente femminile che l’insegnante aveva dato a questo problema, se lo avesse fatto un maschio non sarebbe stato nulla di grave.
Perché non so, magari nei ragazzi non sortiva lo stesso effetto negativo che aveva sulle ragazze. Lo so che è un pensiero stupido ma a 12 anni mi sono dato delle risposte che solo un dodicenne si può dare: sbagliate.
Pensai che questo sarebbe stato un ottimo metodo per non ingrassare senza dover necessariamente rinunciare ai piaceri della tavola, ma poi il pensiero mi passò, per qualche mese, almeno.
Ricordo bene quel giorno, era un giovedì, avevo il rientro a scuola e coi miei compagni di classe andammo ad una rosticceria cinese per pranzo.
Ravioli alla griglia, riso alla cantonese, pollo con anacardi e banana caramellata. Un pranzo decisamente importante.
Sono sempre stato un amante del cibo e a fine pasto avevo sempre il buonumore, ma stavolta era diverso.
Non mi era mai capitato ma arrivato il momento del conto da pagare i miei coetanei spesero sui 5-7 euro, quando toccò a me notai di aver speso più del doppio.
-ma davvero ho mangiato così tanto?- pensai fra me e me.
Cominciai a pensare che forse effettivamente quando mi chiamavano ciccione, o palla di lardo non avevano tutti i torti. Se ero sovrappeso era per delle mie scelte, non per una qualche sfortuna o per cause indipendenti da me.
E così mi sentii in colpa.
Sentii che non mi ero meritato di mangiare quelle cose così buone.
Sentii che non avevo diritto di godermi così tante leccornie.
Mi tornò a mente quella lezione sulla bulimia e pensai che solo Per una volta avrei potuto rimediare a questo errore in quel modo.
Chiesi di poter usare il bagno, andai al wc e mi misi con la testa sulla tazza, mi lavai le mani e misi l’indice a contatto con l’ugola, aspettai qualche secondo e arrivarono i primi conati, la salivazione aumentò e mi spaventai, cosi tolsi la mano. Fissai l’acqua di quel cesso e pensai che forse non era il caso, che avrei dovuto lasciare perdere. Cosa stavo facendo?
Ma poi alzai lo sguardo e vidi la mia immagine, avevo il doppio mento, le guance piene e avevo dovuto fare un buco aggiuntivo alla cintura perché mi stava stretta.
Così presi coraggio e tornai giù con la testa, la saliva comincio a bagnarmi le mani e gocciolare sul wc quando finalmente rimisi qualcosa.
Era poco ma aveva fatto molto male, poiché era una palla di cibo disidratata e ruvida. Bevvi un po’ di acqua del rubinetto e mi rimisi all’opera. Riuscii ad espellere un bel po’ di cibo.
Alzai la testa e nello specchio c’era lo stesso ragazzo di prima, sempre in carne, ma con le maniche della felpa sporche di cibo rimesso, gli occhi gonfi e rossi e le guance solcate di lacrime dovute allo sforzo.
Non so perché ma vedendo questa immagine mi sentii meglio. Un po’ come se avessi “pagato” per la mia abbuffata.
In qualche modo avevo pareggiato i conti.

Aspettai che mi passasse il rossore agli occhi, mi pulii al meglio e tornai dagli altri.
Qualche settimana dopo capitò un’altra abbuffata e si ripeté tutto allo stesso modo.
Cominciai a farlo una volta ogni 2-3 settimane ma nel giro di pochi mesi arrivai a farlo una volta ogni 3-4 giorni.
Nel frattempo la mia fisicità non cambiava, e nonostante tutto ritenni un successo il fatto di non ingrassare.
Mangiavo pizza 3-4 volte alla settimana, un paio di pacchi di pop corn al formaggio ogni giorno, patatine, torte, merendine, colazioni con un pacco intero di crostatine al cioccolato.
Ero “famoso” perché mangiavo per dieci e non ingrassavo.
Da bambino ero davvero così, a causa di una lieve iper insulinemia, ma crescendo i miei livelli insulemici si erano regolarizzati e avevo dovuto sopperire in altro modo.
Verso i 21 anni trovai un gruppo motivazionale su whatsapp, un gruppo di persone (molte ragazze) che si spronavano l’una con l’altra a rimettere o a non mangiare proprio.
Fu così che scoprii la pratica del digiuno.
Arrivavo a mangiare anche solo due fette biscottate al giorno per 3 giorni, quando poi cedevo alla fame e mi scofanavo 3 pizze rotonde tutte insieme avevo ancora un’opzione: andare in bagno a vomitarle.
Era un piano perfetto, che cominciai a seguire alla lettera.
Mi vennero dati consigli su come rendere più semplice ed efficace il tutto.
Come ad esempio pesarsi prima di mangiare e dopo mangiato per capire quanto si è introdotto, ed infine pesarsi dopo aver rimesso finché non si è tornati al peso pre pasto.
Bere tanta acqua per rendere scivoloso l’esofago e morbido il cibo affinché non grattasse le mucose mentre risaliva.
Masticare bene e a lungo, preferibilmente mangiare riso, cus cus o cose “piccole”, sarebbe stato meno doloroso espellerle.
Condividevo i miei risultati con queste persone e ricevevo i complimenti, che viceversa ricambiavo.
Ma io ero ancora grasso.
Cioè, oscillavo come una fisarmonica tra i 100 e gli 80. Ma io mi vedevo sempre uguale, sempre grasso.
Perché le maglie su di me sembravano così “piene”? Perché non miglioravo?
Arrivato a 26 anni, mi resi conto che andavo in bagno a rimettere non solo quando mi abbuffavo ma anche se mangiavo una semplice insalata o del pollo.
Ormai non era più solo una questione di peso, ma anche un modo per punirmi per non essere stato capace di raggiungere determinati obiettivi.
Prendevo un brutto voto? Prima mi consolavo con un pezzo di pizza e poi andavo a vomitarlo.
Mi veniva dato del “fr0cio di merda”? Un bel pezzo di torta sacher e poi via in bagno.
Non passavo un colloquio di lavoro?
Qualcuno mi faceva notare un mio sbaglio? Stesso copione.

Il punto di svolta fu la morte per cause legate alla malnutrizione di un paio di ragazzi di questo gruppo su whatsapp.
Cominciai a rendermi conto di quanto tutto questo non fosse sano. Di fatto io non mi sentivo bene. Non mi sentivo in salute.
C’era bisogno di cambiare qualcosa.

Fino a quel momento andavo in palestra due volte a settimana per 45 minuti, giravo la sala pesi facendo la macchina che più mi ispirava in quel momento.
Cominciai a cercare di andare un giorno in più, poi due. Mi sforzai di restare almeno un ora.
Cercai su internet informazioni sui gruppi muscolari e come strutturare l’allenamento.
Iniziai a ridurre il numero di pizze settimanali magari anziché ordinarne due a volta, mangiarne una a sera.
O se la prendevo al taglio anziché 8 pezzi a prenderne solo 6.
Piano piano ridurre anche il numero di pacchi di patatine e pop corn giornalieri.
Non più di due crostatine a colazione.
Pasta a pranzo solo 100 grammi.
E poi, qualche ricetta che mi facesse rendere mangiabili carote broccoli e zucchine che non mi sono mai piaciuti.
Insomma, un percorso molto lento, ma stavolta finalmente i risultati arrivarono. Persi 25 kg.
Cominciai a comprare magliette taglia small, pantaloni non più 56 ma 48. Andare al mare e mettermi in costume non era più così drammatico finalmente.
Così pian piano smisi di farlo.
Non solo perché il mio corpo mi piaceva un po’ di più ma perché finalmente potevo regalarmi come premio un pasto, mi meritavo il mio cibo, perché avevo preso la strada giusta per avere dei risultati.

Purtroppo questo è un demone che non si sconfigge mai.
La chiusura delle palestre durante il lockdown per molti ha significato soltanto prendere qualche kg, per me ha significato perdere tutte quelle abitudini che mi hanno salvato, e tornare a camminare sulla fune.
Lamentandomi per la chiusura delle palestre mi sono sentito dire che mi mancava farmi le foto allo specchio per sentirmi riempire di likes, oppure “ma fatti una corsetta!”
C’è un piccolo problema: io odio andare in palestra, ma mi sento bene quando esco. Una volta arrivato negli spogliatoi non vedo già l’ora di venir via quindi mi sbrigo a fare tutto così posso tornare a casa. Allenarmi a casa non mi riesce, il gatto sul divano, la tv accesa, troppe distrazioni.
Sono consapevole che il tempo cambierà il mio corpo, non sarò sempre giovane, dovrò lavorare su me stesso per accettare che questa “corazza” di muscoli che mi sono costruito non potrà proteggermi da me stesso e non può garantirmi niente.
Però confesso, mi ha aiutato tanto, a sentirmi più al sicuro, soprattutto a sentirmi meno indifeso.
Forse così capirete perché per me è così importante andare così tanto in palestra, non è che sono fissato così a caso.
Non ho mai parlato a nessuno di questa situazione. La paura di essere visto con occhi diversi, di essere ritenuto “meno virile” in quanto affetto da un problema di cui soffrono prevalentemente le donne, la paura di sentirmi considerato debole o una persona che cerca le scorciatoie, il timore che chi mi stava vicino mi trattasse con pena o con delle attenzioni magari sincere ma che mi avrebbero fatto sentire “malato”, mi hanno sempre spinto a tenermi tutto dentro e a cercare la forza di uscirne da solo. E sono stato fortunato ad averla.

Quel che vorrei dire a chi vive questa situazione è di chiedere aiuto a qualcuno che ha gli strumenti per capire come affrontare la cosa. È molto importante uscirne, prima che sia troppo tardi.
Perché a volte non ci se ne rende conto perché ci sembra di avere il controllo della situazione, ma non è così. Mai.
È lei che ci controlla, sempre. Anche quando pensiamo di fare una scelta consapevole, non è così.

Quello che mi sento di dire invece a chi ha la possibilità di educare i giovanissimi, è di fare molta attenzione all’inclusività.
Una tematica estremamente attuale, fra l’altro.
A volte una vocale può fare la differenza.
Non posso avere la certezza che se quel giorno a scuola l’insegnante non avesse declinato al femminile questo disturbo, io l’avrei preso diversamente.
Ma ricordo che l’associazione al genere femminile me la fece sembrare molto meno grave di quanto in realtà fosse. Chissà, magari se mi fosse stato spiegato che anche se statisticamente era una malattia a prevalenza femminile, riguardava anche una percentuale di maschi forse mi sarei sentito scoraggiato e disincentivato nel farlo.

So di non essere l’unico ragazzo ad aver sofferto di questo problema, ma so anche di far parte di una minoranza.

Una minoranza che comunque merita di essere salvata, credo.

O come Ovetto

12 Maggio 2021

Avevo 5 anni quando mio zio Mario, il fratellone di mio padre, morì.

Il cancro è una brutta bestia e purtroppo è una delle eredità che si tramandano nella mia famiglia.

Di lui ho dei bei ricordi, immagini soffici e spumose come solo un cucciolo di umano può stampare nella propria memoria.

Ricordo il suo sorriso celato da due baffoni emblematici della moda di quegli anni. Quel sorriso giocherellone che mancava a mio padre, affettuoso e presente ma più burbero.

Quando lo incontravo il suo passatempo preferito era nascondermi ovetti kinder in qualche zona della casa, io dovevo esplorare e lui diceva “acqua” o “fuoco” in base a quanto ero distante dal tesoro che stavo cercando. Erano momenti bellissimi ed esilaranti per me, quando esasperava le esclamazioni “alta marea” o “mare profondo” quando ero lontanissimo e “fuochino fuochino” o “incendio” quando c’ero quasi. Alla fine mi tirava in braccio e con un bacione sonoro sulle guancia mi dava il cioccolatino faticosamente trovato.

Ricordo bene quando morì. I miei ovviamente non mi parlarono della malattia per proteggermi, ma alla fine a cose fatte scoprii tutto.

Mi arrabbiai molto per non aver avuto la possibilità di salutarlo e di dirgli quanto mi sarebbe piaciuto fare un’ultima volta la nostra caccia al tesoro speciale.

Qualche settimana fa, per pasqua, avevo messo da parte qualche ovetto kinder nascosto dietro a un vaso in casa, per darlo ai figli di un’amica che alla fine non ho potuto vedere e quindi neanche fargli avere. Oggi mentre facevo ordine ho controllato e quegli ovetti sono spariti. Non ho la minima idea di dove siano finiti. Sicuramente c’è una spiegazione logica, qualche ospite che passava di lì li avrà presi pensando fossero i classici cioccolatini da servire a chi ti viene a trovare o cose del genere.

Ma non so perchè, mi è venuto a mente mio zio. Un po’ come se stavolta il tesoro gliel’avessi nascosto io e fosse stato lui a trovarlo.

É una cosa stupida lo so.. ma ho provato una sensazione di sorriso interiore, del resto a quei tempi bastava trovare un cioccolatino per sorridere.


Beh, zio, adesso anche a me sono cresciuti due bei baffoni sai? ma mi piace ancora la cioccolata, tranquillo..

Emanuele

D come disturbo

4 gennaio 2021

Vi ho mai detto che sono stato un ADHD?

ADHD è una sigla che indica il deficit di iperattività ed attenzione che ha il suo esordio da bambini ma spesso ci si porta dietro in età adulta .
Oggi se ne parla un po’ di più ma negli anni 90, quando fu diagnosticato a me erano i primi anni in cui si sentiva questo acronimo.

Avendo a che fare per lavoro con bambini spesso mi sento dire dai genitori -eh sai lei è iperattiva non sta mai ferma- e discorsi simili. Ovviamente mi viene da sorridere perché si tende a confondere l’entusiasmo, la frenesia e l’inesauribile energia fisica dei bambini con la vera condizione ipercinetica clinica.

Ricordo molto bene che il mio non stare mai fermo, non era dovuto al bisogno di sfogare l’energia tipica dei bambini che sembra non si stanchino mai… piuttosto era causato dal continuo reagire ad ogni stimolo con curiosità ed emulazione.
Il “deficit dell’attenzione” derivava dal senso di ammirazione di ciò che mi trovavo davanti, che fosse un cantante, un ginnasta circense, un pittore, un cuoco o altro, la mia voglia di capire cosa si prova a saper fare quella cosa mi spingeva ad approcciarmi a quella determinata attività.
Il bello è che essendo una fase “acuta” tutte le attenzioni erano concentrate sullo svolgere quel compito quasi fosse il mio unico obiettivo nella vita e questo portava a conseguire buoni risultati in quasi tutto ciò che facevo, al punto da far pensare chi mi aveva intorno che avessi trovato la mia vera passione.
Tuttavia dopo poco tempo mi distraevo e con la stessa tenacia e perseveranza cambiavo interesse e mi mettevo a fare altro, essendo colpito continuamente da ogni genere di stimolo.
Era qualcosa di più che un normale “provare a fare un altro sport” tipico dei bambini alla ricerca del proprio sport preferito, ad esempio; era più uno spasmodico bisogno di saper fare tutto ciò che sanno fare anche gli altri per sentirmi speciale o accettato da tutti, me stesso compreso.

La vera differenza nella realizzazione della propria persona sta qui, secondo me.

Questa mia peculiarità mi ha portato a coltivare molti interessi ed approcciarmi a tantissime attività sportive, musicali, lavorative, artistiche ecc, ma a raggiungere un livello sufficiente/buono in ciascuna di esse.
Per molte persone questa condizione suscita un apparente e superficiale “wow sai fare tutto” ma che poi non porta a un reale interesse verso le mie capacità.
In realtà le persone sono più colpite da chi eccelle.

Purtroppo per un ADHD eccellere è davvero difficile.

Per eccellere serve applicarsi su UNA o DUE cose per anni ed anni, lasciando perdere le distrazioni.
Questo percorso comporta scegliere quale campo portare avanti abbandonando altri interessi.
Per me queste scelte sono state strazianti.
Abbandonare alcune attività sportive o clulturali, ma anche semplicemente dover scegliere la scuola superiore è stato un dramma. A 13 anni mi trovai a dover dare una direzione piuttosto specifica della mia vita,
Io volevo imparare a dipingere ma mi affascinava anche la biologia, ero predisposto ad apprendere le lingue e non disdegnavo lavori manuali.
Ogni volta che mi convincevo di scegliere qualcosa non riuscivo a smettere di pensare che stavo rinunciando a qualcos’altro, perdendo quindi l’occasione di imparare qualcosa di nuovo, mi sentivo come se stessi perdendo l’opportunità di essere più completo, mi sembrava di lasciar andare un pezzo di un potenziale “me”.

Mi era stato detto, come si fa con tutti i bambini per infondergli fiducia in loro stessi, di avere le potenzialità per poter fare qualunque cosa, ed io mi affidavo a queste parole confidando che sarei riuscito a diventare un asso in ogni attività che intraprendevo. L’approccio iniziale era buono ma quando vedevo che venivo “superato” nel giro di poco o che il mio percorso inizialmente promettente dopo un po’ rallentava mi sentivo come se avessi fallito o se avessi creduto un po’ troppo nelle mie capacità.
Speravo che un giorno sarei stato così bravo da poter suscitare negli altri la stessa ammirazione che avevo vissuto prima io, ma mi rendevo conto che tutto questo non accadeva mai e che non ero mai diventato un modello da seguire come invece lo erano stati altri per me.

Forse questo ha fornito un buon appiglio ai bulli che mi prendevano di mira.
Quando sei un fenomeno, o comunque una promessa nel tuo ambito in qualche modo forse riesci ad essere rispettato, o comunque ti rifugi in quel quadratino minuscolo dove solo tu sai essere il massimo, quando sei un tuttofare che però non è mai il più bravo in niente è più difficile ottenere la stima di qualcuno.
Quando tutto ciò che hai da dimostrare è di saper combinare qualcosa in cucina, dipingere un quadro decente, suonare e cantare più o meno benino una canzone, insomma, pasticciare un po’ dappertutto, l’impressione generale è meno forte di una persona che si dimostra veramente talentuosa in un campo e che in quello risulta essere estremamente competitivo o addirittura il migliore.

-ma non ti fermi mai?
-ma c’è qualcosa che non sai fare?
-ah pure questo? Siccome ne facevi poche.

Quante volte mi sono sentito dire queste frasi, consapevole della buona fede di chi le pronunciava, magari sorridendo e scherzandoci su ma dentro di me facendo spallucce e sperando un giorno di riuscire ad essere eccellente in qualcosa.
Mi è pesato spesso, non tanto per la mia percezione, ma per il confronto coi pari, che inevitabilmente ci mette di fronte ai nostri successi e ai nostri fallimenti.

Essere un ADHD è stato difficile per me e per chi mi ha avuto accanto nella vita, e anche se tutto sommato non ho rimpianti per aver seguito ciò che sentivo di fare, un po’ di sana invidia per chi ha avuto sempre e subito le idee chiare su cosa fare e chi essere mi capita di provarla.

Emanuele

D come dita

1 settembre 2020

Fin dalla nascita soffro di una condizione genetica chiamata CAMPTODATTILIA.
Si tratta di una malformazione che riguarda i tendini di una o più dita (nel mio caso anulare e mignolo della mano sinistra, medio anulare e mignolo della destra, quest’ultimo fortemente fortemente accentuato) che non crescono come dovrebbero e portano il dito interessato a non distendersi normalmente.

Questa condizione non è invalidante, non causa dolore o fastidio si nota solo se si fa particolare attenzione alla mano, tuttavia mi ha causato forte difficoltà ad avere una calligrafia leggibile soprattutto in corsivo, motivo per cui, sotto certificato medico, ho svolte l’esame di maturità in stampatello.
Purtroppo la percentuale di successo per gli interventi risolutivi della mia situazione è pressoché nulla e le conseguenze sono solitamente la perdita della prensilità del dito operato quindi, la mia condizione è e sarà sempre questa.

Di per se non è mai stata un grande problema, come dicevo prima non ho dolori e posso fare praticamente tutto, non mi ha impedito neanche di imparare a suonare il pianoforte… eppure a volte mi ha causato qualche difficoltà.

Ricordo ancora bene quando un giorno alle elementari stavo tentando di scrivere con la sinistra, dove il mignolo si stende meglio, e mi esercitavo coi quaderni cercando di fare tanti cerchi o croci dentro i quadratini dei fogli; mentre con la sinistra tenevo la penna, la destra stava stesa sul banco, tutta stesa tranne il mignolo ovviamente.
Un mio compagno di classe alzò la mano e disse “maestra, perché Emanuele ha le dita storte?”
Prima di allora non avevo mai ritenuto quella della mia mano una faccenda interessante, eppure quando gli sguardi degli altri bambini e della maestra di voltarono su di me mi sentii per un attimo un fenomeno da baraccone.
Ad essere onesto non ricordo le esatte parole della maestra ma rammento che dissimulò per riportare l’attenzione dei miei compagni sulla lezione.

Successivamente a quell’evento mi iniziò a capitare di avere la sensazione di fastidio, di frustrazione, incrementata da qualche battutina sulle mie dita da “rapace”.

Pochi anni dopo una mia compagna delle elementari divenne “famosa” per riuscire a portarsi tutte le dita della mano talmente indietro da toccare con le unghie il dorso del polso.
Tutti a turno ci provavano e ovviamente speravo che nessuno me lo chiedesse perché le mie dita già non si stendevano normalmente, figuriamoci se andavano così indietro!

In segreto tentavo di fare stretching tirandomi il dito mignolo all’inverosimile, provavo ad attaccarci dei piccoli pesi da tirare su per esercitare il muscolo, mi mettevo con la mano stesa e tiravo pugni sulla gobba che si creava sulla seconda falange ma a parte molto dolore non cambiava niente.
Mi mettevo ad occhi chiusi e pian piano stendevo la mano sul tavolo, avevo continuamente la sensazione di avere le dita totalmente stese e quando aprivo gli occhi il dito era piegato, mi fu spiegato in seguito che questa sensazione detta “arto fantasma” è tipica di chi in seguito ad una amputazione percepisce ancora la presenza dell’arto.
Io percepivo di avere il dito steso quando in realtà non lo era.
Ed in quei momenti la discrepanza fra sensazione e realtà era così forte da generare un dolore mentale che si traduceva in percezione fisica, cosa tuttora presente visto che anche solo a scriverne adesso mi viene da stringere il mignolo come dopo averlo sbattuto da qualche parte.
Cominciai a smettere di far comparire la mano destra nelle foto, ad usare di più la sinistra per fare tutto, onde evitare che altri mi facessero notare questa mia deformità.

Col passare degli anni mi sono reso conto che questo fantomatico dolore lo percepisco solo quando ci penso, quando guardo quel dito e ripenso al fatto che non posso stenderlo, ma se lascio tutto com’è, non provo niente.
Addirittura a volte ci ho scherzato su, perché ho sempre immaginato che crescendo le persone sarebbero state più umane e nessuno mi avrebbe più preso in giro, fortunatamente è andata proprio così.

Ma è davvero curioso notare come, a volte, il dolore psichico scaturitosi per una sensazione di disagio sociale o interiore possa tramutarsi in dolore reale e tangibile, come ad avere uno spillo piantato lì che causa una fitta assordante.
Le mie mani sono queste, le mie dita sono storte e bitorzolute, rugose e pelose, e per quanto siano poco canoniche, sono uniche al mondo… e possono fare tutto ciò che fanno anche le altre mani.

E va bene così.

F come fantasma

3 giugno 2020

Ricordo benissimo il giorno del mio dodicesimo compleanno.
era proprio un sabato, ed essendo a settembre cadeva nei giorni in cui la fiera passava da Empoli. Per me era enorme, nonostante sicuramente ve ne fossero di molte più grandi, ma (io ragazzo di campagna) mi sentivo come uno sbarbatello in città per la prima volta.
era un pomeriggio soleggiato ma l’aria non era più asfissiante come qualche settimana prima, il 2001 fu l’estate più calda della mia vita, tuttavia il 29 settembre era già quel sole che serve a scaldarti la pelle quando non ti ripari, ma nulla di più.

i gruppetti di ragazzi e ragazze miei coetanei si muovevano a mucchi di 3-4 persone, ed io ero andato lì per caso in realtà, poichè in classe qualcuno propose ad alta voce di andare alla fiera, ed io risposi “va bene, vengo anche io!”, nessuno mi aveva fatto un invito diretto, ma pensai che era stato così con tutti e quindi non ci sarebbero stati problemi.
l’ora di ritrovo era alle 16 circa e così mi presentai al parcheggio. girando fra le giostre passammo di fronte al “treno fantasma”, quel piccolo vagone che fa un mini tour “horror” se così si può dire, mentre nel bel mezzo del giro c’è sempre un manichino spaventoso che salta fuori con un suono grottesco e nel mentre ti viene scattata una fotografia.
proposi ai ragazzi di farlo ma venni deriso poichè si trattava a loro detta di un’attrazione per bambini piccoli. sarà stato vero, effettivamente, ma in generale la fiera mi ha sempre ricordato quelle emozioni così forti che da piccoli ci fanno sentire vivi, e un piccolo tuffo nel passato non può che ricordarci quanto le cose semplici spesso siano sufficienti a darci gioia.

passammo di fronte al tagadà, dove salimmo ma non mi azzardai a schiodarmi dal sedile, mentre tutti ballavano nel centro della pista ed io ero terrorizzato dal pericolo di scivolare e rompermi qualcosa, salimmo sui calcinsella e ovviamente lo feci solo per il gusto di sentire il vento poichè nessuno si era voluto mettere in coppia con me per spingerci e prendere il peluche.
arrivò il momento della casa degli specchi, entrammo dentro uno alla volta promettendo di aspettarci all’uscita.
io fui l’ultimo, e ci misi forse 4-5 minuti in più degli altri per trovare l’uscita. ero ansioso di percorrere la pedana che scendeva al ritorno poichè c’era un soffione che sparava aria compressa e ogni volta che ci camminava qualcuno sopra il giostraio lo azionava per scompigliare i capelli o alzare i vestiti ai giocatori.
tutti i miei compagni si sbellicavano dal ridere a queste scene e non vedevo l’ora che lo facessero con me!

all’uscita del labirinto non trovai nessuno, e non capii perchè se ne fossero andati, pensai che fossero al bagno o a mangiare qualcosa ma non erano nè al paninaro nè alle toilettes. feci un giro attraverso gli scivoli, alla sala giochi, alla pesca dei cigni e al tiro al bersaglio ma niente, non li trovai.
sconfitto ed intristito pensavo per l’ennesima volta al perchè non fossi sufficientemente interessante o divertente per loro, o cosa li spinse a dimenticarsi di me. ma io non ho dimenticato, non ho scordato la sensazione di smarrimento. nessuno di loro mi fece gli auguri, forse se lo erano scordato, ed io per evitare di sembrare spocchioso non glielo ricordai.
per trascorrere il tempo passeggiando in attesa di essere recuperato dai miei, passai di fronte al treno fantasma, quello dove i miei amici non vollero salire, spesi 2000 lire e presi un gettone, vi salii e capii che era più spaventoso ciò che c’era fuori da quella giostra rispetto ai pupazzi inanimati che avevo trovato lì dentro.
all’uscita vidi la foto che mi fu scattata e il prezzo, controllai il portafoglio e ciò che avevo era appena sufficiente, così la presi.

buon compleanno Ema

Oxygen

14 marzo 2020
Oggi ho capito di essere fatto di aria.
 
ero convinto di essere fatto di sangue cellule e tessuti ed invece scopro di essere fatto di aria.
ci sono momenti che mi sento leggero, quasi inosservato, sotto gli occhi di tutti ma “scontato” ed altre volte che mi sento mosso da onde emotive che mi rendono forte, catastrofico, quasi pericoloso.
quando metti una mano fuori dal finestrino incontri la resistenza dell’aria, perchè lei sta lì buona buona e tu arrivi a tutta velocità e pretendi di attraversarla, così lei si scontra con la superficie del tuo braccio e ti respinge indietro.
allo stesso modo sento mille mani, mille gioie, speranze, idee che pretendono di attraversarmi, e sbattono contro le mie paure, le mie fragilità che per proteggermi cercando di spingerli indietro.
 
eppure se ci fate caso, se girate la mano col palmo verso il basso l’aria trova meno superficie e quindi meno resistenza. si, ogni volta che son stato capace di appiattire le mie insicurezze, i miei terrori e la mia tristezza è stato più semplice ricevere l’ossigeno necessario per andare avanti, e anzi, le emozioni che mi sembravano opporre resistenza, si sono rivelate in realtà amiche e sostegno che volevano solo dirmi “ehi, stai andando nella direzione giusta”.
 
si, oggi ho scoperto di essere fatto di aria…
Emanuele

P come Plutone

22 gennaio 2020

Non ho mai avuto paura del giudizio degli altri, ma ho sempre avuto il terrore di non essere capito.

Ho sempre sentito dire che in base a come ti chiamano, puoi capire come ti considerano le persone.

Quando ero alle elementari per tutti ero Ema, Manu…. alle medie diventai “il Mori”.

Odio essere chiamato il Mori.

Credo che la sensazione di essere incompresi sia una delle peggiori nella vita.

Mi ricordo bene quando ero alle medie tutta la buona volontà che ci ho messo per propormi come amico, per inserirmi nei vari gruppetti, cercando di essere semplicemente me stesso.

Fino alle elementari ero sempre stato un po’ con tutti e con tutte, ma in una fascia di età come quella delle medie nella quale iniziano a differenziarsi maggiormente i due sessi mi ritrovai smarrito perché come è normale che sia pure le mie amiche più care Chiara e Raissa ebbero da pensare alle loro cose e ovviamente si affiatavano con le loro coetanee.

Io mi sono sempre sentito un “outsider” uno di quelli che sta un po’ nel mezzo a tutto.

C’erano giorni che ai ragazzi andavo un po’ più a genio e mi sentivo gratificato, mi dicevo “dai Ema forse stanno iniziando a capirti”, ma poi il giorno successivo c’era sempre qualcosa che si spezzava e tornavo daccapo.

Mi sentivo come Plutone, il più lento, il più distante dei pianeti ed il più lontano dalla luce, che a periodi alterni viene considerato un pianeta o declassato ad un pianeta nano.

E continuavo a cercare in me quale fosse il problema.

Pensavo al mio aspetto, troppo retrò con questi maglioni di lana a rombi, i pantaloni di velluto, i jeans 10 taglie più della mia.

All’epoca andava di moda dragon ball e c’era un personaggio chiamato trunks che aveva i capelli lisci viola con la riga nel mezzo, un paio di miei compagni di classe portavano questa acconciatura che spopolava.

Ricordo che mi mettevo davanti allo specchio dopo la doccia e mi pettinavo così, ma poi i miei capelli si arricciavano e diventavo un ridicolo spaventapasseri.

I miei non mi avrebbero permesso di uscire in quel modo ma quando arrivai a scuola mi recai al bagno e mi lavai la testa pettinandomi a quella maniera. Attesi qualche minuto tamponando con la carta e tornai in classe, i miei capelli tornarono ridicoli in breve tempo e tutti ci risero su.

Quella sera a casa mi guardavo allo specchio con tutte le luci accese.

Continuavo a chiedermi cosa non andasse nei miei capelli e perché non rispondessero al mio “comando” come quelli degli altri.

Osservavo i miei occhi nei quali si rifletteva la luce al neon quadrata intorno allo specchio, osservavo quel naso enorme che non era più all’insù come qualche anno prima ma era diventato largo e appuntito.

Mi mettevo di tre quarti ed osservavo la mia fronte che era spaziosissima e curva, non dritta come quella di chiunque altro.

Pensai che forse puntare sull’aspetto fisico non sarebbe stato l’ideale, dunque cercai di propormi con la simpatia o comunque a livello caratteriale.

C’erano volte che riuscivo in qualche modo a farmi notare positivamente con qualche battuta ma mai per più di qualche momento o al massimo di un giorno.

Provavo a invitarli a casa mia in piscina ma fin quando venivano da me mi trattavano come fossi uno di loro, al ritorno a scuola tornavo ad essere quello strano guadagnandomi sempre appellativi poco carini.

La cosa mi ferì ancora di più perché a quel punto non solo mi sentivo poco valorizzato per ciò che ero, ma anche utilizzato per ciò che avevo.

Provavo in tutti i modi a pensare che si trattasse di un semplice sfottò, che quei nomignoli se li dessero anche fra di loro ma dissimulassero sorridendo rafforzando così anche il rapporto … eppure io non riuscivo a fare lo stesso, mi sembrava che con me ci andassero più pesante, sempre di più, e le volte che provavo anche io a smorzare con delle battute probabilmente traspariva la mia reale frustrazione e quindi non risultavo simpatico.

Cercavo in me qualcosa che non andasse, poteva trattarsi della mia scarsa tendenza alle marche ed i brand, alla mia incapacità di capire perché un ragazzino desiderasse una cintura di D&G piuttosto che un gameboy col gioco dei Pokémon, non riuscivo a comprendere tutto questo interesse verso il Fanta calcio, verso i risultati della squadra dell’Empoli, non potevo saltare la scuola poiché avendo una pessima calligrafia non avrei mai saputo falsificare una firma sul libretto delle giustificazioni…. non riuscivo a trovare argomenti o interessi con loro.

Si, non ero l’unico outsider della classe, molte persone saltavano da un gruppetto all’altro ma, non so se sia stata una mia percezione distorta all’epoca o la realtà, mi sentivo l’unico che veramente se fosse scomparso dalla classe sarebbe importato a pochissime persone.

Ormai non trovavo tanto rifugio neanche nel gruppo delle ragazze, devo dire che con loro andava molto meglio ma iniziavano ad esserci i momenti in cui, tutti a sedere insieme, si avvicinavano per parlottarsi nell’orecchio e se provavo a chiedere la risposta era “sono discorsi da donne”.

Discorsi da donne?

Non capivo. Perché io non ho mai vissuto credendo che ci fossero discorsi da uomini, che una ragazza non potesse affrontare.

Non sono mai riuscito ad affrontare la questione coi professori, ci provai sono una volta con Gabriella, l’insegnante del doposcuola che era autoritaria come una professoressa ma vedevo in lei una figura più vicina, forse a causa della sua età più giovane rispetto agli altri professori.

Non credo di essermi spiegato benissimo con lei all’epoca o forse non c’era ancora stata tutta questa sensibilizzazione sul bullismo, ci fu da parte sua la tendenza a ridimensionare il mio disagio spiegandomi che era normale che a quell’età si creassero certi attriti.

Non ho mai messo in dubbio le sue buone intenzioni e del resto non avrei neanche voluto un “processo” a quelli che non mi volevano come amico, anche perché dubito che avrebbe risolto qualcosa, e poi non volevo costringere nessuno ad essermi amico ad ogni costo.

Eppure ogni volta che suonava la campanella della pausa pranzo c’era la corsa ai tavoli (che erano da 4) accaparrandosi i posti più vicini ai compagni di classe preferiti. Mi ritrovavo spesso accanto ad altri che, come me, non erano esattamente sulla cresta dell’onda, addirittura spesso se restavo l’unico fuori andavo a tavola con un professore sentendomi ancora più a disagio …

Purtroppo le mie scuole medie sono state questo, una scuola meravigliosa con ottimi insegnanti ed un programma formativo sensazionale, ma circondato da persone con le quali non sentivo di avere cose in comune.

Nel tempo ho capito che anche se osservando tutti quei pianeti che giravano così veloci e così vicini al sole, al loro posto io non ci sarei stato per nulla bene, non avrei sopportato tutto quel calore; laggiù a miliardi di anni luce dove mi trovavo, quella poca luce che arrivava era tutto ciò che mi serviva, e ho anche scoperto che l’universo non finisce con Plutone.

Poche amicizie hanno resistito a quel periodo, Chiara ad esempio è la luce dei miei occhi e la mia più cara amica.

Adesso, lavorando con i ragazzi di quell’età, ho spesso occasione di notare come la sensibilizzazione sul bullismo abbia fatto tanto…..

Eppure sovente mi capita di vedere qualche altro Plutone, e percepire in loro delle fragilità simili a quelle che ebbi io, e di cui sicuramente ancora oggi mi porto degli strascichi, così cerco discretamente di capire e in caso dare qualche consiglio.

Mi sembra un po’ come se, aiutando loro, aiutassi anche quel piccolo Emanuele che, a suo tempo, nessuno ha salvato.